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Quei «guru» nella City milanese

di Paolo Madron

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16 Settembre 2008

Quando gli dei cadono fanno rumore. E in qualche caso, come questo di Lehman, è un rumore che lascia un'eco di rimpianti e qualche comprensibile incazzatura, visto che i dipendenti italiani hanno chiesto allo studio Erede di tutelarne i diritti, accusando senza mezzi termini i colleghi americani di averne provocato il tracollo coi loro funambolismi su mutui e derivati.
Atroce beffa, se è vero che a New York consideravano la loro filiale una delle migliori province dell'impero, la sola forse dove chi la guidava e l'istituzione si confondevano fino a diventare sinonimi: Ruggero Magnoni della Lehman Brothers, la banca americana del suo protagonista più rappresentativo. Un legame che durava da oltre trent'anni, che ha fatto della sede milanese di piazza del Carmine il crocevia di tanti affari, e che ora si spezza brutalmente nello spazio di un fine settimana in cui a Wall Street si è cercato in tutti i modi (davvero tutti?) di salvare il moribondo e il suo storico blasone. E poco consola l'onore delle armi testimoniato dalle molte telefonate di sincero rincrescimento, come quella di Alberto Nagel a Magnoni, simbolica perché arrivata dal manager di una banca fieramente antagonista della Lehman, per anni contr'altare straniero al non lontano santuario italico di via Filodrammatici, su cui ora cala il sipario. Calerà anche sulla carriera del suo uomo simbolo?
No, perché Magnoni, banchiere e bon viveur, capace di sciorinare senza dare la minima idea di tirarsela un florilegio di amicizie altisonanti ai quattro angoli della terra – un mix di capitani d'industria, politici di rango, nobili tutt'altro che decaduti, sarà per via del suo mezzosangue spagnolo (è nato 57 anni fa a Barcellona) –, ha sette vite e soprattutto è interprete ecumenico di «les affaires sont les affaires» anche quando a bussare da lui sono due arcinemici come Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti. Con il primo, ha fatto Wave, onda, titanica operazione che portò Mediaset in Borsa azzerando d'un botto i debiti di un Cavaliere allora annaspante. Con l'Ingegnere non si saprebbe neanche da che parte cominciare, visto che almeno dai tempi dell'Olivetti l'uomo della Lehman è il convitato di pietra che sta dietro a tutto: consiglia, suggerisce, talvolta litiga (vedi le giravolte sul destini di M&C, il roboante fondo salva imprese), talvolta va a sciare con il figlio Rodolfo sulle piste di Sankt Moritz.
Ma per il grande pubblico, quello che si interessa di finanza solo quando i tecnicismi della materia lasciano il posto ad appassionanti feuilleton, Magnoni è soprattutto l'uomo che ha aiutato Colaninno e la pletora dei suoi alleati padani a scalare la Telecom. Audace impresa, persino spudorata per la piccola Olivetti vista la mole della preda, ma che diventa possibile sull'euforica spinta della new economy, quando il denaro trovava ovunque inesausti moltiplicatori. Il giorno in cui il ragioniere di Mantova lancia l'Opa, i giornalisti che lo vogliono intervistare fanno al fila in piazza del Carmine, e siccome allora il personaggio è ancora un quasi oggetto misterioso perché appena uscito dal cono della dominante ombra debenedettiana, è Magnoni a far gli onori di casa. E si capiva bene, apparente paradosso, perché il banchiere fosse molto più di un semplice banchiere, uno che si potesse sciattamente apparentare con i tanti italiani che avevano calcato con successo le strade di Wall Street o della City. E questo spiegava come assolutamente naturale quello che fuori risultava invece un palese conflitto di interessi quando Magnoni, autorizzato dalla casa madre, indossava contemporaneamente i cappelli di uomo Lehman e, finanziere in proprio con quote nell'Intek del suo amico Enzo Manes, nell'OmniaInvest che è la cassaforte dei Colaninno, e nella Sopaf di suo fratello Giorgio.
Trent'anni sulla scena fanno sì che i tombstones, le tacche pubblicitarie sui deal realizzati che appesi sulle pareti dell'ufficio simil ex voto testimoniano i successi di una carriera, non si contino: dalla privatizzazione della Comit a quella di Finmeccanica, da Telecom alla Seat a Mediaset, da Telepiù alla consulenza a Johann Rupert, il magnate del lusso di cui è intimo, alle quelle col Tesoro sugli immobili pubblici, fino alla recente advisory ad Air France sulla vicenda Alitalia. Il fatto che per tutti Lehman sia Magnoni non vuol dire che dietro non sia esistita una squadra che, e non solo adesso nel momento della malasorte, tutti hanno sempre riconosciuto come un punto di forza. Da Vittorio Pignatti, con lui pioniere dell'investment banking europeo della banca, a Patrizia Micucci, cui Magnoni affidò la responsabilità dell'Italia nonché le redini di un'altra operazione su cui molto si parlò, la privatizzazione di Seat e la sua successiva fusione con le attività internet di Telecom. In piazza del Carmine è finito per un breve periodo anche Matteo Arpe uscito da Mediobanca dopo aver litigato con Vincenzo Maranghi. E come tutte le grandi banche d'affari, Lehman nel corso degli anni ha fatto di alcuni protagonisti della scena economica – magari presi nell'intervallo tra un incarico e l'altro – i suoi consulenti. Una bella schiera di ex: da Franco Reviglio (Eni) a Francesco Mengozzi (Alitalia), da Rainer Masera (Imi) a Francesco Caio, che fu capo di Olivetti, l'azienda di Ivrea che nella carriera di Magnoni è stato luogo di intrecci e felici ritorni.

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